Dopo il viaggio da incubo di tre ore, quando arrivavi al
paese eri nauseato e quando mettevi piede sul marciapiede eri mezzo pazzo e
maledicevi l’autista inventandoti divinità ufficiali oppure di tua creazione.
Adesso è tutto diverso, la strada è nuova e perfetta, ho la
macchina coi finestrini che si chiudono e non devo sopportare l’aria gelata a
violentarmi collo, spirito e intelletto. Insomma, arrivi al paese integro, e allora fai le cose che devi
fare.
Prima cosa, andare a trovare i tuoi genitori. Parcheggio
davanti al cimitero e infilo le mani nelle tasche, salgo sulle scale e ogni
volta la stessa storia, dimentico sempre dove si trova la tomba di mia madre.
Devo sempre molestare qualche affranto, che sa sempre il punto esatto e non ne
comprendo mai le ragioni. Forse la mia è una forma di autodifesa mentale, non so,
e quando infine mi trovo dinanzi alla sua foto sorridente, chiudo gli occhi, la
cerco nel mio spirito e lei si fa largo tra il marcio che porto nel cuore, e
allora parliamo, e ci diciamo cose che i vivi è meglio non sappiano.
Poi, dopo questo tonificante bagno di dolore, vado a trovare
mio padre che mi racconta le ultime novità, a farmi dire dei nipotini, a
rispondere a domande sempre uguali, come “ed i bambino come sta, sei andato a
trovarlo?”
“No babbo, non sono andato, se son qui non posso essere a Carbonia,
ma poi sta bene, adesso devo stare qui.”
“E perché devi stare qui?” A questo punto m’invento una
balla, non gli dico che sono ritornato per lui, non intendo manifestargli
qualsiasi preoccupazione. Accidenti, ha perso la donna con cui ha trascorso la
sua vita, che gli ha dato quattro figli, con cui ha sofferto, gioito, vissuto,
con cui ha fatto scudo. Eppure lui sta sempre nella sua camicia, come Francesco
Guccini, a raccontare e raccontarsi.
Non so, forse è una caratteristica dei nuoresi, o forse
della sua stirpe, alla fin fine è lui ad aiutare a me e non il contrario, che
io son nato col cuore debole, e mi basta trovare un capellino con nastrino per
perforarmi anima, cuore, cervello e a spingermi in quel caos mentale che mi
costringe a ritornare in me stesso, e trovare delle giustificazioni a tutto
questo. Puro esercizio mentale, perché giustificazioni non ne trovo mai. Alla
morte non puoi dare ragioni.
Infine esco, e incontro qualche nuovo e giovane amico, e mi
sorprendo sempre per la loro vitalità. Proprio ieri ragionavo con due di loro,
e forse ho individuato il motivo della loro allegria in questa società
decadente.
Prima pensavo che forse non fossero consapevoli di quanto
accadesse, come io alla loro età non ero consapevole dei veri poteri che
governano il mondo. Cioè, a loro va bene e si divertono come possono, fanno il
percorso dei nostri padri, sono nati in una società allo sfascio, e pensano che
la società sia quella, che non ci siano alternative. Noi, la mia generazione,
arriva da una società al massimo della sua potenza economica, e abbiamo visto
lo sgretolarsi lento e inesorabile di un mondo che pareva indistruttibile.
Per dirla in breve, quando noi parlavamo dei nostri destini,
quando avevamo ventidue o ventitré anni, ritenevamo che l’impiego pubblico
fosse il massimo della “sfiga,” avevamo dinanzi un oceano di possibilità. Io
pensavo “no, la fine di mia madre non la faccio, cazzo”, dietro una scrivania,
a fare calcoli, ad affacciarsi alla finestra e vedere Su Muntonargiu. “Zero”. Ora, invece, trovare un impiego pubblico è
come trovare un forziere stracolmo di monete d’oro alla fine dell’arcobaleno,
tragicamente impossibile. Conosco persone che darebbero un rene e forse mezzo
cuore, per stare dietro quella scrivania che odiavo... e oggi, oggi l’impiego
pubblico è cambiato, ci sono i parametri di produttività, mazzi vari, leggi
naziste, mica come prima, che entravi in certi servizi e ti domandavi se
l’impiegato dinanzi a te fosse sveglio oppure stesse dormendo, visto che si
muoveva con la stessa vitalità del triste, povero, distrutto, Presidente
Mattarella.
I ragazzi della mia generazione, Dio ne tenga conto! Invece,
questi ragazzi di oggi, sono allegri e gentili, non hanno conosciuto il periodo
d’oro e si son fatti scaltri, sono più uniti, si organizzano, si amano, hanno
il sorriso sincero e gli occhi intelligenti. Di certo non hanno preparazione
ideologica ma, beati loro dico io, beati loro!
Ieri in un locale è stato organizzato un Karaoke, e invece
di parteciparvi (una persona triste che canta è uno spettacolo abominevole,
come un tizio travestito da pagliaccio It che scorta la vedova del compianto
marito), ho girovagato per le strade del paese, tra le case silenziose,
fotografando la porta dove un tempo la famiglia paterna entrava e usciva, per
fare quel pane che ci ha permesso di studiare, diventare noi stessi padri,
essere donne e uomini onesti.
Mentre mi trovavo dinanzi a quella porta ho pensato a mio
padre, ai miei zii e soprattutto a mio nonno Mario, eroe di guerra, panettiere
da sorriso e cuore gentile, che Dio mi ha tolto quando ero bambino e di cui
avrei avuto tanto bisogno per crescere meno felino, e di cui ricordo tutto come
se fosse ieri, che la sventura mi ha dato una memoria di ferro. Nonno, caro
nonno, scendi a darmi una mano, che ho in mente le promesse che mi hai fatto,
ed i posti che dovevamo vedere, e le persone che dovevamo incontrare!
Dopo ci siamo fermati in una panchina di Cuccreddu, il quartiere più antico del
paese, quello più prossimo alle montagne, la
Barbagia di Jerzu. Eravamo accucciati nei nostri giubbotti, in alto, come
sparvieri pronti a planare sulla valle. Solo allora ho osservato le singole
case, e nella mente ho percorso i miei ricordi, e il dolore e la gioia in essi
contenuti, riflettendo sul fatto che in questo paese il dolore è riservato alle
quattro mura, mentre nel mio quartiere cittadino è spaventosamente strillato.
Urla di madri sui figli drogati o alcolizzati, urla di uomini disoccupati
contro fantasmi immaginari, urla di gente che sta male, e alle sette del
mattino, quando torno dal lavoro, urlano... e urlano non alla fine della
giornata, ma appena svegli, all’alba, come se ci trovassimo in una Sarajevo
appena bombardata.
Anch’io a volte urlo, ma urlo col mio scrivere, che il Signore non mi ha dato mai il dono della discrezione, e devo raccontare i fatti miei al mondo, agli uomini, alle donne ed alle bestie con sembianze umane. A conti fatti, son contento di farlo, perché poi mi scrivono le persone che hanno la stessa voglia di urlare, e mi domandano come fare, ed io m’invento risposte e alchimie, rimedi e tecniche mentali. Forse dovrei dire, vieni, vieni a conoscere i ragazzi del mio paese, che loro ti sapranno spiegare, e magari t’insegneranno a vivere, piuttosto che a mettere continuamente pezze sugli strappi, e tappi sulle falle, come faccio io, da troppo, troppo tempo.
#vincenzomariadascanio
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