mercoledì 26 gennaio 2022

Alberto s'innamora di una lucciola slava


 Alberto s’era clamorosamente innamorato di Sonia, una lucciola che lavorava non lontano dalla laguna di Santa Gilla, vicino al cavalcavia che porta alla sulcitana. Ad ogni modo Agostino aveva tentato di farlo desistere, ma le sue parole erano cadute nel vuoto come bottiglie di Vodka lanciate dal campanile di una Cattedrale sconsacrata.

“Cazzo”, gli disse una notte in cui la cercavamo per tutta la città, “sei proprio un coglione, ma come fai ad innamorarti di una puttana, sei proprio uno stronzo, tu...”

“Agostino, non rompermi le palle, facciamo quello che dobbiamo fare e stai zitto!”

“Appunto”, disse questo con le labbra imbrattate di vino, “si può sapere cosa cavolo dobbiamo fare?”

“Dobbiamo trovare Sonia, sono preoccupato per lei...”

“Questa è bella... dai, diamoci una mossa allora, mi sono già rotto le palle...”


Io volevo dire qualcosa, certamente qualche stupidaggine, ma Valeria intuì le mie intenzioni e mi fece capire che non era il caso. Ci trovavamo sulla macchina di Alberto già da qualche ora, ma di Sonia neanche il profumo. Non era la prima volta che ci recavamo in quelle strade buie e stagnanti, infatti la ragazza era sparita da due giorni e oramai cominciavamo a temere il peggio. Alberto ci aveva raccontato che avevano avuto una lite violentissima, era dunque intervenuto il suo protettore, e lui gli aveva spaccato una bottiglia di birra sui denti. Sonia l’aveva intimato di non farsi mai più vedere, ma eravamo certi che quel dannato pappone se la sarebbe presa con lei.


Alcune colleghe di Sonia avevano già cominciato a lavorare, quindi Alberto pensò d’appostarsi nella “sua” zona, per cercare di comprendere cosa sarebbe accaduto. Le ragazze avevano il loro quartier generale non lontano da Viale Trento, presso un distributore di benzina dall’aspetto sinistro e malinconico. Lavorare in quella strada non era stata una deliberazione a scrutinio segreto, poiché in realtà era stato frutto d’imposizioni, minacce e soprusi che non ammettevano nessun rilancio. Non avevi a che fare con diplomatici, guardie svizzere o signorili giocatori di scacchi. A Cagliari la situazione delle lucciole era notevolmente cambiata, i baroni del marciapiede non erano più gli stessi. Dopo la conquista del dominio i nuovi sovrani avevano deciso d’allargare o restringere i feudi a seconda dalla loro potenza di fuoco.

 

In precedenza tutto era sommariamente di tutti, vigeva un sistema anarchico della marchetta, non c’erano cartelli, oligopoli e patti anticoncorrenziali. Ognuna (od ognuno, o ognun*) poteva deliberatamente fissare la propria tariffa, e il prezzo era individuato nel puntuale incontro della domanda e dell’offerta, ossia la leggendaria trattativa privata tra cliente e prostituta. Ora non è più così, le tariffe sono decretate da uomini assoluti che governano incontrastati e, oltre al danno la beffa, s’accaparrano la totalità dei profitti sessuali.

 

Nei casi più disperati i ricavi sono determinati dal denaro accumulato dalle ragazze, i costi individuati nel cibo per tenerle in vita, ed alcuni vestiti per renderle desiderabili. Un’impresa del sangue certamente redditizia. L’anarchia, dunque, è stata cancellata da un totalitarismo becero e violento, ma è fondamentale fare buon viso a cattivo gioco, se non si vuole correre il rischio di masticare fango in qualche fosso non lontano dallo stagno.


Alberto guidava come un ossesso tra strade buie, sconnesse e polverose, pareva preda di demoni alcolizzati e scontrosi. Con una mano teneva il volante, nell’altra una bottiglia di birra che lanciò verso una fuoriserie, arrestatasi ignara dinanzi ad una lucciola magiara. La sua maglietta era lorda di farina e fango, sulle sue gambe una mazza da baseball attendeva d’essere maneggiata non di certo per realizzare un immane fuoricampo. Questo elemento emblematico mostrava in tutta la sua straordinaria perfezione i suoi facinorosi intenti. Scrutava come un falco ogni centimetro quadrato del marciapiede poi, inaspettatamente, agì con rabbia sull’asta metallica del freno a mano, dinanzi al cavalcavia della 130. La macchina si lasciò andare ad un pirotecnico testacoda. Nessuno disse una parola, soltanto Agostino osò violare il religioso silenzio.

 
“Ma perché cazzo ci siamo fermati qui?” Disse scostandosi un attimo dal suo bottiglione di vino rosso.

“Stai zitto e aspetta...” Rispose Alberto mentre afferrava la mazza.
Per alcuni secondi il silenzio dominò nuovamente incontrastato. Alberto si concentrò su una macchina, un’infelice Croma color panna, ben riparata da uno degli imponenti piloni del viadotto. Il nostro gettò allora la sigaretta, aprì lo sportello con una spallata, afferrò la mazza e il bottiglione di Agostino, avviandosi come una folgore verso la Croma, che intanto cominciava a oscillare come una scialuppa sospinta da brezze marine. Alberto, mentre si avviava coi suoi possenti scarponi (ci trovavamo verso gli inizi di Luglio), solleva una leggera coltre di polvere, e quella stessa polvere, quella mazza, la sua andatura, lo facevano sembrare un antico gladiatore assetato di vittoria. Il bottiglione di vino rosso, tuttavia, lo tramutava nel giovane alcolizzato pazzo che in effetti era.

“Vai con lui, corri, Lorè, vai con lui!” Urlò Valeria con una mano sulla fronte.

Mi risvegliai da un preoccupante stato di trance, non riuscivo a raccontarmi la ragione per cui mi trovavo in quella situazione da incubo. A casa m’attendeva “Storia delle Dottrine politiche”, con le diavolerie di Rousseau, le ossessioni di Machiavelli, l’odio incondizionato di Hobbes verso il genere umano. Invece mi trovavo là, in una macchina sudicia come i cessi delle stazioni ferroviarie, a rincorrere uno squilibrato del tutto intenzionato a sfruttare le compatte fibre della sua mazza da baseball. Mia madre avrebbe trascorso il resto della sua vita in Chiesa, se avesse saputo una cosa del genere. Non le sarebbero bastate tremila “Ave Maria” e cinquecentomila “Atti di dolore” per strapparmi dalle laccate unghie di Lucifero. Avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a domandarsi la ragione di quella punizione, mattine invernali e serate primaverili per individuare con circospezione il peccato scatenante l’ira dell’Assoluto.


Riuscì a raggiungere Alberto proprio mentre stava aprendo lo sportello della Croma. Non appena compì questo clamoroso gesto, a noi si presentò uno scenario pasoliniano. All’interno una bellissima adolescente bionda, viso da bambola, forse slovacca, cavalcava un uomo sulla settantina del tutto simile a Lamberto Dini.

“Mio Dio, che sta succedendo” disse l’anziano alzando le mani. Alberto sbirciò all’interno della macchina.

“No, scusi, abbiamo sbagliato persona...”

“Ma, perbacco, il vostro comportamento è azzardato...”

“Stia zitto, altrimenti le infilo questa mazza da baseball nel culo... Le ho chiesto scusa, maledizione!” Detto questo Alberto diede un calcio allo sportello, e la vettura ricominciò a ondeggiare come se nulla fosse accaduto. Lo spavento non era stato sufficiente per contenere la libidine sfrenata del sosia dell’ex premier liberale.


Mentre ci avvicinavano alla macchina Alberto s’accese una sigaretta, e me ne offrì una.

 “Cazzo”, dissi, “quel vecchietto, era identico a Lamberto Dini, miseria ladra...”
“E cosa t’aspettavi di trovare?” Mi rispose lui con una tranquillità tombale.
Certo, in effetti, cosa pensavo di trovare, Antonio Banderas che limonava duro con Charlize Theron? Mentre camminavamo osservai il continuo susseguirsi d’automobili che marciavano come un esercito in festa. Una dopo l’altra, una dopo l’altra, una dopo l’altra. Talvolta transitavano dei ragazzi strafatti che si mettevano a urlare, e agitavano della fiammeggianti bottiglie di superalcolici. Ragazzi in licenza premio, fuggiti alle loro prigioni, ai loro lavori pesanti, ai loro studi pazzeschi, alle loro idiozie, alle loro mogli o fidanzate, e che cercavano nell’atto sessuale uno stordimento effimero che li allontanasse, anche per una sola sera, dai supplizi banchettanti nelle loro menti.

 

Alcuni cercavano l’amore, una semplice carezza, un pizzico di calore umano, altri cercavano la violenza, l’ingordigia, l’ignota depravazione di comprare un corpo. Transitavano autisti solitari e torvi, che mestamente mantenevano un braccio appoggiato al finestrino e ti scrutavano per capire s’eri un transessuale. Era difficile comprendere chi fossero in realtà le vittime: loro, oppure le lucciole sulla strada. I primi incatenati da una vita che odiavano, le altre da magnacci pronte a farle saltare il cervello...


Passammo accanto a una ragazza affatto bella, forse aggredita dall’eroina o da malattie veneree. Chiese ad Alberto se intendeva “divertirsi”, questo alzò la testa, si riprese dai suoi pensieri, appoggiò l’armamentario e gli diede venti euro. Fu un’immagine scioccante, non si dissero una sola parola. Quando arrivammo alla macchina il nostro si sdraiò per terra e cominciò a piangere. Valeria lo vide, gli prese il bottiglione di vino dalle mani, poi si sedette accanto a lui.
“Su, su”, disse accarezzandogli i capelli, “vedrai che la troviamo la tua Sonia...”
“Ho seriamente paura che le abbiano fatto del male...”

“Dai, stai tranquillo...”

 “No, lo sento, deve essere successo qualcosa. Non è da lei comportarsi così!”
“Eh.. si! Non è da lei comportarsi così... Sembra che stai parlando della principessa Sofia”, urlò Agostino dalla macchina, “ti s’è fuso il cervello bello mio, ah ah!”

 “Pensa a te stronzo, ed a tutte le pippe che ti fai al posto di studiare!” Urlò dunque Valeria. Agostino non rispose. Come al solito Valeria aveva colpito nel segno.

 
Quella sera non riuscimmo a trovare Sonia, e per molto tempo mi sono domandato come’era andata a finire quella vicenda. Dopo alcuni anni riuscì a scoprire la verità, grazie alle parole dello stesso Alberto. Grazie a un giochetto del mio avvocato ero uscito dal carcere, e “nonostante” i patetici sforzi dello Stato nessuno intendeva darmi un lavoro. Avevo combinato un bel guaio, e la fedina penale sporca non è un bel biglietto da visita. Non sapevo dunque come trascorrere il tempo, così cominciai a seguire alcune lezioni universitarie, tra cui diritto penale, diritto penitenziario e simili, così, tanto per togliermi qualche dubbio sorto durante la mia villeggiatura forzata. Un pomeriggio, mentre mi trovavo nel bar degli studenti in compagnia di una birra, vidi Alberto che arrivava, e mentre camminava mostrava il suo bel sorriso. Ci abbracciammo, del resto erano secoli che non ci vedevamo.


“Ciao Bello”, gli dissi, “come va?”

“Tutto bene, oh, ma ti sei fatto crescere la barba?”

 
Incredibile, col tempo il mio amico era diventato un uomo, non pareva affatto il ragazzone che trascinava la mazza da baseball voglioso si spaccare qualche cranio sciagurato. Notai un grosso orologio sul suo polso, doveva aver raggranellato un bel po’ di quattrini, il nostro caro cacciatore di magnaccia. Io, invece, annaspavo tra gli ultimi della terra, e sul polso portavo una cicatrice conseguita di diritto in penitenziario, durante una sanguinosa lotta per non essere violentato. Alberto ascoltò la mia vicenda con le mani tra i capelli. “Mio Dio!”, “Accidenti!”, “Bastardi!”, “Farabutti!” “Dannato secondino!” Dopo una serie infinita d’esclamazioni, quasi non si mise a piangere. Poi, anche per evitare una situazione che cominciava a diventare imbarazzante, cambiai immediatamente discorso e gli chiesi di Sonia. Non avevo mai dimenticato quella vicenda, in carcere le ore trascorrono lente e ogni episodio della tua precedente esistenza è sondato con minuzia di particolari.


“Già, Sonia, accidenti, avrei fatto di tutto per lei…” Mi disse con voce immensamente triste. “Si, l’ho trovata, l’ho trovata… Quelle notti non ci riuscivamo perché era fuggita a Sarajevo, la sua città, per scappare da quel figlio di puttana…”

 “Sei riuscito a parlarle?”

“No, ma sono andato a cercarla. Sono rimasto là quasi due mesi, poi sono riuscito a sapere che lavorava in un locale non lontano dal mio Hotel, pensa un po’…”

“Quindi l’hai incontrata, vi siete finalmente visti!”


“No, no… Due giorni prima che riuscissi a recuperare le informazioni è ritornata in Sardegna, questa volta per fuggire da un isolato eccidio etnico. Le avevano assicurato che quel maledetto era crepato, così ha iniziato a lavorare in Costa Smeralda, per i ricchi dei villaggi vacanze. Questa volta i soldi che intascava erano tutti suoi, ma una sua amica mi disse che teneva solo il minimo indispensabile, perché voleva che i suoi fratelli la raggiungessero. Tuttavia il suo vecchio protettore non era morto, erano tutte cazzate. Così il bastardo l’ha trovata, violentata, segato la testa e buttato il corpo in un fosso. Cazzo”, concluse passandosi una mano sul viso, “la testa non è mai stata trovata...”


Non sapevo cosa dirgli, in effetti non c’era molto da dire, in certi casi è preferibile il silenzio e accettare insieme l’inestinguibile sapore della dannazione. Dopo qualche minuto fummo capaci di riparlare, e mi promise sulla stessa Sonia che avrebbe sgozzato quel maledetto magnaccia.
“Un giorno lo troverò quel bastardo, e gli farò pagare tutto, tutto quanto...”
“La vendetta è un piatto che va servito freddo, così dicono…”
“E’ un proverbio stupido!” Mi rispose Alberto. Considerai che aveva perfettamente ragione.

“Ti manca molto, non è vero? Ti posso chiedere come l’hai incontrata?”
“Niente, una sera sono semplicemente diventato uno dei suoi molteplici clienti, tutto qui. Poi da cliente sono diventato il suo unico amante.”
“L’hai amata tanto, non è vero?”

“Si, forse troppo. Lo so cosa stai pensando, devo essere uno sfigato per essermi innamorato di una puttana. Alla fine Agostino aveva ragione...”

 “Dai, tutti sappiamo che Agostino non ha mai avuto ragione su nulla... Guarda, in prigione ho visto tante sciagure, ma ho visto persone giurarsi l’amore eterno, nonostante malattie, sofferenze o separazioni trentennali. Non puoi dire: oggi m’innamoro di questa, domani non m’innamoro più, dopodomani amerò un’altra. E’ come dice Davide: l’amore è magia, non puoi rifletterci più di tanto...”


“Chi cazzo è Davide?”

 “Il mio compagno di cella, accidenti a lui…”

 “Tu ami qualcuno?”

“Si”, gli risposi, “ma lei non mi vuole vedere. Questa è una tortura, altro che i cazzotti in sala mensa...”

Tra noi ci fu un attimo di silenzio, poi Alberto s’accese una sigaretta.
“Cosa devo fare, Lorè?”

“Cosa devi fare? Trova quel bastardo, ammazzalo, tagliagli la testa e fotografala. Poi facciamo un bel cartello, e sotto la foto del merda ci scriviamo: QUESTA E’ LA TESTA DI UN CAZZONE CHE HA OSATO TOCCARE UNA LUCCIOLA.” Fatto questo ci organizziamo, e una notte appendiamo i cartelli in tutta la città...”


La mia voleva essere una battuta macabra, forse fuori luogo, ma era soltanto una semplice, stupida, efferata battuta. Tuttavia io e Alberto ci guardammo negli occhi, e nessuno dei due rise. Il carcere m’aveva effettivamente rieducato.

#vincenzomariadascanio

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