Alberto s’era clamorosamente innamorato di Sonia, una lucciola che
lavorava non lontano dalla laguna di Santa Gilla, vicino al cavalcavia che
porta alla sulcitana. Ad ogni modo Agostino aveva tentato di farlo desistere,
ma le sue parole erano cadute nel vuoto come bottiglie di Vodka lanciate dal
campanile di una Cattedrale sconsacrata.
“Cazzo”, gli disse una notte in cui la cercavamo per tutta la città, “sei
proprio un coglione, ma come fai ad innamorarti di una puttana, sei proprio uno
stronzo, tu...”
“Agostino, non rompermi le palle, facciamo quello che dobbiamo fare e stai
zitto!”
“Appunto”, disse questo con le labbra imbrattate di vino, “si può sapere
cosa cavolo dobbiamo fare?”
“Dobbiamo trovare Sonia, sono preoccupato per lei...”
“Questa è bella... dai, diamoci una mossa allora, mi sono già rotto le
palle...”
Io volevo dire qualcosa, certamente qualche stupidaggine, ma Valeria intuì le
mie intenzioni e mi fece capire che non era il caso. Ci trovavamo sulla
macchina di Alberto già da qualche ora, ma di Sonia neanche il profumo. Non era
la prima volta che ci recavamo in quelle strade buie e stagnanti, infatti la
ragazza era sparita da due giorni e oramai cominciavamo a temere il peggio.
Alberto ci aveva raccontato che avevano avuto una lite violentissima, era
dunque intervenuto il suo protettore, e lui gli aveva spaccato una bottiglia di
birra sui denti. Sonia l’aveva intimato di non farsi mai più vedere, ma eravamo
certi che quel dannato pappone se la sarebbe presa con lei.
Alcune colleghe di Sonia avevano già cominciato a lavorare, quindi Alberto
pensò d’appostarsi nella “sua” zona, per cercare di comprendere cosa sarebbe
accaduto. Le ragazze avevano il loro quartier generale non lontano da Viale
Trento, presso un distributore di benzina dall’aspetto sinistro e malinconico.
Lavorare in quella strada non era stata una deliberazione a scrutinio segreto,
poiché in realtà era stato frutto d’imposizioni, minacce e soprusi che non
ammettevano nessun rilancio. Non avevi a che fare con diplomatici, guardie
svizzere o signorili giocatori di scacchi. A Cagliari la situazione delle
lucciole era notevolmente cambiata, i baroni del marciapiede non erano più gli
stessi. Dopo la conquista del dominio i nuovi sovrani avevano deciso
d’allargare o restringere i feudi a seconda dalla loro potenza di fuoco.
In precedenza tutto era sommariamente di tutti, vigeva un sistema
anarchico della marchetta, non c’erano cartelli, oligopoli e patti
anticoncorrenziali. Ognuna (od ognuno, o ognun*) poteva deliberatamente fissare
la propria tariffa, e il prezzo era individuato nel puntuale incontro della
domanda e dell’offerta, ossia la leggendaria trattativa privata tra cliente e
prostituta. Ora non è più così, le tariffe sono decretate da uomini assoluti
che governano incontrastati e, oltre al danno la beffa, s’accaparrano la
totalità dei profitti sessuali.
Nei casi più disperati i ricavi sono determinati dal denaro accumulato
dalle ragazze, i costi individuati nel cibo per tenerle in vita, ed alcuni
vestiti per renderle desiderabili. Un’impresa del sangue certamente redditizia.
L’anarchia, dunque, è stata cancellata da un totalitarismo becero e violento,
ma è fondamentale fare buon viso a cattivo gioco, se non si vuole correre il
rischio di masticare fango in qualche fosso non lontano dallo stagno.
Alberto guidava come un ossesso tra strade buie, sconnesse e polverose, pareva
preda di demoni alcolizzati e scontrosi. Con una mano teneva il volante,
nell’altra una bottiglia di birra che lanciò verso una fuoriserie, arrestatasi
ignara dinanzi ad una lucciola magiara. La sua maglietta era lorda di farina e
fango, sulle sue gambe una mazza da baseball attendeva d’essere maneggiata non
di certo per realizzare un immane fuoricampo. Questo elemento emblematico
mostrava in tutta la sua straordinaria perfezione i suoi facinorosi intenti.
Scrutava come un falco ogni centimetro quadrato del marciapiede poi,
inaspettatamente, agì con rabbia sull’asta metallica del freno a mano, dinanzi
al cavalcavia della 130. La macchina si lasciò andare ad un pirotecnico
testacoda. Nessuno disse una parola, soltanto Agostino osò violare il religioso
silenzio.
“Ma perché cazzo ci siamo fermati qui?” Disse scostandosi un attimo dal suo
bottiglione di vino rosso.
“Stai zitto e aspetta...” Rispose Alberto mentre afferrava la mazza.
Per alcuni secondi il silenzio dominò nuovamente incontrastato. Alberto si
concentrò su una macchina, un’infelice Croma color panna, ben riparata da uno
degli imponenti piloni del viadotto. Il nostro gettò allora la sigaretta, aprì
lo sportello con una spallata, afferrò la mazza e il bottiglione di Agostino,
avviandosi come una folgore verso la Croma, che intanto cominciava a oscillare
come una scialuppa sospinta da brezze marine. Alberto, mentre si avviava coi
suoi possenti scarponi (ci trovavamo verso gli inizi di Luglio), solleva una
leggera coltre di polvere, e quella stessa polvere, quella mazza, la sua
andatura, lo facevano sembrare un antico gladiatore assetato di vittoria. Il
bottiglione di vino rosso, tuttavia, lo tramutava nel giovane alcolizzato pazzo
che in effetti era.
“Vai con lui, corri, Lorè, vai con lui!” Urlò Valeria con una mano sulla
fronte.
Mi risvegliai da un preoccupante stato di trance, non riuscivo a raccontarmi la
ragione per cui mi trovavo in quella situazione da incubo. A casa m’attendeva
“Storia delle Dottrine politiche”, con le diavolerie di Rousseau, le ossessioni
di Machiavelli, l’odio incondizionato di Hobbes verso il genere umano. Invece
mi trovavo là, in una macchina sudicia come i cessi delle stazioni ferroviarie,
a rincorrere uno squilibrato del tutto intenzionato a sfruttare le compatte
fibre della sua mazza da baseball. Mia madre avrebbe trascorso il resto della
sua vita in Chiesa, se avesse saputo una cosa del genere. Non le sarebbero
bastate tremila “Ave Maria” e cinquecentomila “Atti di dolore” per strapparmi
dalle laccate unghie di Lucifero. Avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a
domandarsi la ragione di quella punizione, mattine invernali e serate
primaverili per individuare con circospezione il peccato scatenante l’ira
dell’Assoluto.
Riuscì a raggiungere Alberto proprio mentre stava aprendo lo sportello della
Croma. Non appena compì questo clamoroso gesto, a noi si presentò uno scenario
pasoliniano. All’interno una bellissima adolescente bionda, viso da bambola,
forse slovacca, cavalcava un uomo sulla settantina del tutto simile a Lamberto
Dini.
“Mio Dio, che sta succedendo” disse l’anziano alzando le mani. Alberto
sbirciò all’interno della macchina.
“No, scusi, abbiamo sbagliato persona...”
“Ma, perbacco, il vostro comportamento è azzardato...”
“Stia zitto, altrimenti le infilo questa mazza da baseball nel culo... Le
ho chiesto scusa, maledizione!” Detto questo Alberto diede un calcio allo
sportello, e la vettura ricominciò a ondeggiare come se nulla fosse accaduto.
Lo spavento non era stato sufficiente per contenere la libidine sfrenata del
sosia dell’ex premier liberale.
Mentre ci avvicinavano alla macchina Alberto s’accese una sigaretta, e me ne
offrì una.
“Cazzo”, dissi, “quel vecchietto, era identico a Lamberto Dini,
miseria ladra...”
“E cosa t’aspettavi di trovare?” Mi rispose lui con una tranquillità tombale.
Certo, in effetti, cosa pensavo di trovare, Antonio Banderas che limonava duro
con Charlize Theron? Mentre camminavamo osservai il continuo susseguirsi
d’automobili che marciavano come un esercito in festa. Una dopo l’altra, una
dopo l’altra, una dopo l’altra. Talvolta transitavano dei ragazzi strafatti che
si mettevano a urlare, e agitavano della fiammeggianti bottiglie di
superalcolici. Ragazzi in licenza premio, fuggiti alle loro prigioni, ai loro
lavori pesanti, ai loro studi pazzeschi, alle loro idiozie, alle loro mogli o
fidanzate, e che cercavano nell’atto sessuale uno stordimento effimero che li
allontanasse, anche per una sola sera, dai supplizi banchettanti nelle loro
menti.
Alcuni cercavano l’amore, una semplice carezza, un pizzico di calore
umano, altri cercavano la violenza, l’ingordigia, l’ignota depravazione di
comprare un corpo. Transitavano autisti solitari e torvi, che mestamente
mantenevano un braccio appoggiato al finestrino e ti scrutavano per capire
s’eri un transessuale. Era difficile comprendere chi fossero in realtà le
vittime: loro, oppure le lucciole sulla strada. I primi incatenati da una vita
che odiavano, le altre da magnacci pronte a farle saltare il cervello...
Passammo accanto a una ragazza affatto bella, forse aggredita dall’eroina o da
malattie veneree. Chiese ad Alberto se intendeva “divertirsi”, questo alzò la
testa, si riprese dai suoi pensieri, appoggiò l’armamentario e gli diede venti
euro. Fu un’immagine scioccante, non si dissero una sola parola. Quando
arrivammo alla macchina il nostro si sdraiò per terra e cominciò a piangere.
Valeria lo vide, gli prese il bottiglione di vino dalle mani, poi si sedette
accanto a lui.
“Su, su”, disse accarezzandogli i capelli, “vedrai che la troviamo la tua
Sonia...”
“Ho seriamente paura che le abbiano fatto del male...”
“Dai, stai tranquillo...”
“No, lo sento, deve essere successo qualcosa. Non è da lei
comportarsi così!”
“Eh.. si! Non è da lei comportarsi così... Sembra che stai parlando della
principessa Sofia”, urlò Agostino dalla macchina, “ti s’è fuso il cervello
bello mio, ah ah!”
“Pensa a te stronzo, ed a tutte le pippe che ti fai al posto di
studiare!” Urlò dunque Valeria. Agostino non rispose. Come al solito Valeria
aveva colpito nel segno.
Quella sera non riuscimmo a trovare Sonia, e per molto tempo mi sono domandato
come’era andata a finire quella vicenda. Dopo alcuni anni riuscì a scoprire la
verità, grazie alle parole dello stesso Alberto. Grazie a un giochetto del mio
avvocato ero uscito dal carcere, e “nonostante” i patetici sforzi dello Stato
nessuno intendeva darmi un lavoro. Avevo combinato un bel guaio, e la fedina
penale sporca non è un bel biglietto da visita. Non sapevo dunque come
trascorrere il tempo, così cominciai a seguire alcune lezioni universitarie,
tra cui diritto penale, diritto penitenziario e simili, così, tanto per
togliermi qualche dubbio sorto durante la mia villeggiatura forzata. Un
pomeriggio, mentre mi trovavo nel bar degli studenti in compagnia di una birra,
vidi Alberto che arrivava, e mentre camminava mostrava il suo bel sorriso. Ci
abbracciammo, del resto erano secoli che non ci vedevamo.
“Ciao Bello”, gli dissi, “come va?”
“Tutto bene, oh, ma ti sei fatto crescere la barba?”
Incredibile, col tempo il mio amico era diventato un uomo, non pareva affatto
il ragazzone che trascinava la mazza da baseball voglioso si spaccare qualche
cranio sciagurato. Notai un grosso orologio sul suo polso, doveva aver
raggranellato un bel po’ di quattrini, il nostro caro cacciatore di magnaccia.
Io, invece, annaspavo tra gli ultimi della terra, e sul polso portavo una
cicatrice conseguita di diritto in penitenziario, durante una sanguinosa lotta
per non essere violentato. Alberto ascoltò la mia vicenda con le mani tra i
capelli. “Mio Dio!”, “Accidenti!”, “Bastardi!”, “Farabutti!” “Dannato
secondino!” Dopo una serie infinita d’esclamazioni, quasi non si mise a
piangere. Poi, anche per evitare una situazione che cominciava a diventare
imbarazzante, cambiai immediatamente discorso e gli chiesi di Sonia. Non avevo
mai dimenticato quella vicenda, in carcere le ore trascorrono lente e ogni
episodio della tua precedente esistenza è sondato con minuzia di particolari.
“Già, Sonia, accidenti, avrei fatto di tutto per lei…” Mi disse con voce
immensamente triste. “Si, l’ho trovata, l’ho trovata… Quelle notti non ci
riuscivamo perché era fuggita a Sarajevo, la sua città, per scappare da quel
figlio di puttana…”
“Sei riuscito a parlarle?”
“No, ma sono andato a cercarla. Sono rimasto là quasi due mesi, poi sono
riuscito a sapere che lavorava in un locale non lontano dal mio Hotel, pensa un
po’…”
“Quindi l’hai incontrata, vi siete finalmente visti!”
“No, no… Due giorni prima che riuscissi a recuperare le informazioni è
ritornata in Sardegna, questa volta per fuggire da un isolato eccidio etnico.
Le avevano assicurato che quel maledetto era crepato, così ha iniziato a
lavorare in Costa Smeralda, per i ricchi dei villaggi vacanze. Questa volta i soldi
che intascava erano tutti suoi, ma una sua amica mi disse che teneva solo il
minimo indispensabile, perché voleva che i suoi fratelli la raggiungessero.
Tuttavia il suo vecchio protettore non era morto, erano tutte cazzate. Così il
bastardo l’ha trovata, violentata, segato la testa e buttato il corpo in un
fosso. Cazzo”, concluse passandosi una mano sul viso, “la testa non è mai stata
trovata...”
Non sapevo cosa dirgli, in effetti non c’era molto da dire, in certi casi è
preferibile il silenzio e accettare insieme l’inestinguibile sapore della
dannazione. Dopo qualche minuto fummo capaci di riparlare, e mi promise sulla
stessa Sonia che avrebbe sgozzato quel maledetto magnaccia.
“Un giorno lo troverò quel bastardo, e gli farò pagare tutto, tutto quanto...”
“La vendetta è un piatto che va servito freddo, così dicono…”
“E’ un proverbio stupido!” Mi rispose Alberto. Considerai che aveva
perfettamente ragione.
“Ti manca molto, non è vero? Ti posso chiedere come l’hai incontrata?”
“Niente, una sera sono semplicemente diventato uno dei suoi molteplici clienti,
tutto qui. Poi da cliente sono diventato il suo unico amante.”
“L’hai amata tanto, non è vero?”
“Si, forse troppo. Lo so cosa stai pensando, devo essere uno sfigato per
essermi innamorato di una puttana. Alla fine Agostino aveva ragione...”
“Dai, tutti sappiamo che Agostino non ha mai avuto ragione su
nulla... Guarda, in prigione ho visto tante sciagure, ma ho visto persone
giurarsi l’amore eterno, nonostante malattie, sofferenze o separazioni
trentennali. Non puoi dire: oggi m’innamoro di questa, domani non m’innamoro
più, dopodomani amerò un’altra. E’ come dice Davide: l’amore è magia, non puoi
rifletterci più di tanto...”
“Chi cazzo è Davide?”
“Il mio compagno di cella, accidenti a lui…”
“Tu ami qualcuno?”
“Si”, gli risposi, “ma lei non mi vuole vedere. Questa è una tortura,
altro che i cazzotti in sala mensa...”
Tra noi ci fu un attimo di silenzio, poi Alberto s’accese una sigaretta.
“Cosa devo fare, Lorè?”
“Cosa devi fare? Trova quel bastardo, ammazzalo, tagliagli la testa e
fotografala. Poi facciamo un bel cartello, e sotto la foto del merda ci
scriviamo: QUESTA E’ LA TESTA DI UN CAZZONE CHE HA OSATO TOCCARE UNA LUCCIOLA.”
Fatto questo ci organizziamo, e una notte appendiamo i cartelli in tutta la
città...”
La mia voleva essere una battuta macabra, forse fuori luogo, ma era soltanto
una semplice, stupida, efferata battuta. Tuttavia io e Alberto ci guardammo
negli occhi, e nessuno dei due rise. Il carcere m’aveva effettivamente
rieducato.
#vincenzomariadascanio